Intervista a Manuel Scrima in occasione della sua mostra Disembody

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Total look Dockers | Foto di Stefania Danese

Manuel Scrima è fotografo, regista, artista e autore della mostra Disembody che sarà inaugurata oggi, giovedì 24 settembre, alle ore 18.00 presso la galleria Fabbrica Eos di Milano e in esposizione dal 25 settembre al 22 ottobre 2020.

Quando è nata la passione per l’obiettivo?

Quando mio padre regalò una macchina fotografica a mio fratello maggiore. Avevo credo 6 anni e andammo subito allo zoo a scattare foto di noi con le tigri. L’intento era già quello di creare un mondo immaginario, alla Sandokan. Non mi è mai piaciuto scattare foto banali, ogni foto era una mia storia, un mondo che avevo immaginato e volevo ricreare.

Inizi la tua carriera professionale in Africa.

Nel 2006 ho trascorso tre anni lì. E’ stato il mio primo incarico professionale. Ho vissuto tra le popolazioni tribali della Rift Valley (Kenya, Etiopia, Uganda e sud Sudan), la culla dell’umanità, e in questi posti ho toccato con mano la sapienza e la spiritualità. L’incontro con queste culture mi ha fatto riflettere.

Dopo ti dedichi invece alla fotografia commerciale.

Quando scatti foto d’arte perdi il contatto con la realtà. Rispecchiano la tua visione ed è troppo facile. Quando devi scontrarti invece con le esigenze di altri è diverso e sicuramente ti fa crescere e imparare. Devi fare qualcosa che piace a te e che riesci ad immaginare come qualcosa da rendere interessante, ma con dei limiti.

Guido Ciompi?

E’ un famosissimo architetto dal quale, nel 2012, ero spesso a Firenze. E’ stato lui a ispirarmi, tant’è che a queste opere ho iniziato a lavorarci nello stesso anno.

L’idea alla base?

Ciò che ci accomuna tutti come essere umani è la forma del corpo, ma è anche ciò che ci rende diversi gli uni dagli altri. Il corpo umano è un simulacro, un mondo di perfezione catatonica. Ne sono attratto. È il soggetto più interessante che io possa immaginare, per questo non volevo rappresentarlo come è già stato fatto da altri, volevo trovare il mio linguaggio.

Hai fotografato più di 50 soggetti diversi.

Esatto. I corpi formano degli ideogrammi, maschere, figure casualmente simili alle immagini di Rorschach. Ho avuto l’idea di utilizzare materiale umano come una combinazione di puzzle e sovrapposizioni.

In che modo hai realizzato le foto della serie Disembody?

Utilizzando un grande telo retroilluminato e una luce laterale dura, ad esempio una parabola come diffusore. Ciò che più conta è che tutto sia geometricamente allineato e simmetrico in ogni foto, che l’asse ottico passi esattamente nel centro del cubo che fotografo e che il soggetto sia parallelo al piano focale della macchina fotografica. Una volta che tutto è ortogonale ci si può lasciare andare alla libera ispirazione.

Invece in che modo sei riuscito a cogliere l’astrazione di un corpo umano?

Ho costruito un cubo di legno e ho iniziato a scattare le foto di modelli dentro al cubo. Dopo ho fatto realizzare un cubo in quarzo, da ispirazione classica-neoclassica, volevo qualcosa che assomigliasse al marmo delle statue. Ho giocato con la sovrapposizione di lastre di vetro e plexiglass che crea un’altra immagine e fa notare la tridimensionalità. La sovrapposizione crea delle altre immagini sempre più astratte e nell’astrazione si creano dei motivi che possono fare pensare ad altre immagini.

I modelli che hai fotografato sono nudi, ma non sono riconoscibili, perché?

Il sesso e la morte sono le pulsioni profonde che governano ogni nostra azione. Ma l’impulso va sublimato! Ecco perché nelle mie foto l’erotismo risulta velato e nascosto. È la prima volta, con questa mostra, che espongo al pubblico una serie di fotografie di nudo. In un’epoca di mercificazione del corpo, in cui tutti si mettono in mostra tramite i social, io vorrei restituire all’anatomia umana il suo erotismo originario. La mia può essere considerata una critica a questo aspetto della nostra società.

Quando uno scatto è perfetto?

A me già queste foto non piacciano più. Sono un perfezionista ma la perfezione non c’è mai, c’è magari al momento, perché punto sempre verso altro.

La tua è una fotografia senza post-produzione, perché?

Lavoro tantissimo con la post-produzione in ambito commerciale ma mi piaceva l’idea di utilizzare una tecnica più tridimensionale per arrivare ad un risultato senza tempo.

Quale emozione ti suscita guardare le tue opere?

Io immagino prima il lavoro nella mia mente, quindi la soddisfazione è riuscire a ricreare quello che avevo in testa e se non riesco a farlo non sono contento.

Un pregio che ti appartiene in particolar modo?

La positività. Cerco sempre di vedere il lato positivo di tutto, penso che non ci sia nessuna utilità a vedere il negativo e sono anche molto critico, soprattutto verso me stesso.